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PIRANDELLO E IL POTERE SPERSONALIZZANTE DELLA MACCHINA

Le esagerazioni futuriste, se da un lato dimostravano l’assurdità di un riconoscimento entusiastico del progresso industriale dentro una concezione statica anziché dinamica della società, dall’altro dimostravano che il mondo meccanizzato non era riducibile ad un semplice “contenuto” narrativo o poetico, ma una componente essenziale del mondo contemporaneo di fronte alla quale più non reggevano i tradizionali criteri di rappresentazione della realtà.

La rivoluzione del linguaggio operata dal futurismo testimonia che lo scrittore è ormai cosciente di vivere in una società che l’industrialismo ha trasformato profondamente.

Il tema delle macchine, della velocità, del movimento, tanto caro ai futuristi, diviene quindi, in Pirandello, oggetto di riflessione critica dinanzi al progressivo affermarsi, nella società, di tendenze spersonalizzanti legate all’espandersi della grande industria, nonché al diffondersi delle macchine, che meccanizzano l’esistenza dell’uomo e riducono il singolo ad insignificante rotella di un gigantesco meccanismo, privo di relazioni e privo di coscienza. Pirandello in diverse opere demitizza la macchina e pone in risalto l’inquietudine per il suo affermarsi: la “manovella” della macchina da presa di Serafino Gubbio, il “goffo apparecchio rombante” di Tommasino e di Gengé Mostarda deridono la meccanizzazione e, nello stesso tempo, evidenziano i rischi che comporta per la vita dell’uomo

Nei Quaderni di Serafino Gubbio operatore Pirandello si misura criticamente con le problematiche della nascente società industriale italiana e anche con tutti i cambiamenti delle forme di vita collettiva.

Nel romanzo - costruito attorno ad una complessa trama, in cui tutti i numerosi personaggi vanamente inseguono i loro obiettivi affettivi ed esistenziali - il ruolo delle macchine nella vita dell’uomo è per Pirandello soprattutto quello di accrescere la finzione, l’apparenza, l’alienazione dell’uomo.

Già nel Quaderno primo, Serafino, parlando della sua mansione d’operatore indica la passività estraniata del suo lavoro “ Ah, si lavora! E io modestamente - sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago. Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare....”.

[1]All’inizio del terzo quaderno viene presentata un’immagine emblematica: la macchina occupata da tre attrici della Kosmograph che ad alta velocità sorpassa la carrozzella con a bordo Serafino: “Le tre signorine dell’automobile ridono, si voltano, alzano le braccia a salutare con molta vivacità, tra un confuso e gajo svolazzìo di veli variopinti; e la povera carrozzella, avvolta in una nuvola alida, nauseante, di fumo e di polvere, per quanto il cavalluccio sfiancato si sforzi di tirarla col suo trotterello stracco, seguita a dare indietro, indietro, con le case, gli alberi, i rari passanti, finché non scompare in fondo al lungo viale fuor di porta”.

È l’indicazione del cambiamento di visione indotto nell’uomo dalla velocità: le tre donne, ridendo, salutano Serafino, non perché nella carrozzella ci sia qualcuno molto caro a loro; ma perché l’automobile, il meccanismo le inebria e suscita in loro una sfrenata vivacità.

Serafino a bordo del suo veicolo può ammirare riposatamente grandi platani verdi del viale, “giganti della strada, in fila, tanti, aprono e reggono con poderose braccia le immense corone palpitanti al cielo”. Le signorine dell’automobile invece non godono più della natura, ma solo della sensazione di leggiadra vertigine.

È il contrasto tra la visione meccanizzata della vita, introdotta dalla seconda rivoluzione industriale, e una concezione più attenta alla situazione umana dei sentimenti. È la modernità della macchina che porta a vivere caoticamente l’esistenza, con il rischio di arrivare alla perdita dei contatti con il nostro essere. “Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede far agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare”.

Secondo Pirandello è la velocità a procurare nello spirito umano un’ansia acuta, che ha la capacità di impadronirsi della nostra mente, causando l’allontanamento dalla vita sociale dell’uomo alienato dalla macchina:si va, si vola, e il vento della corsa dà un’ansia vigile ilare e acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s’abbia tempo nè modo di avvertire il peso della tristezza, l’avvilimento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenio continuo, uno sbarbaglio incessante: tutto guizza e scompare. Che cosa è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata. C’è una molestia, però, che non passa, simile a un calabrone che ronza sempre, sembra quasi confondersi con lo striscio continuo della carrucola lungo il filo dei tram elettrici. Il battito del cuore non si avverte, non si avverte il pulsare delle arterie. Guai, se si avvertisse! Ma questo ronzio, questo ticchettio perpetuo della cinepresa, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d’immagine; ma che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua stridendo precipitosamente. Ah non bisogna farci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire. In nulla, più, in mezzo a questo tramenio vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzio per ciascuno di noi non cesserà”.


IL RAPPORTO CON LA MACCHINA: UN’IDENTIFICAZIONE ALIENANTE

L’uomo, ormai schiavo della macchina, appare alienato da se stesso, incapace di esprimere il proprio mondo interiore. “L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, è divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciaio le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiave di esse” . Le macchine che dovevano rimanere strumenti sono diventate padrone dell’uomo, ne hanno spezzettato l’esistenza

Nel suo diario immaginario, scritto a cose già avvenute. Serafino Gubbio, operatore cinematografico, soprannominato Si gira, vuole vendicarsi delle macchine che lo hanno ridotto ad una mano che gira una manovella, e perciò scrive, dal suo punto di vista, le vicende della troupe impegnata nella produzione di un film per la casa cinematografica Kosmograph. Il romanzo nasce alla vigilia della prima guerra mondiale, nel 1914 e viene pubblicato per la prima volta su di una rivista letteraria, “Nuova Antologia”; poi in un volume nel 1916 con il titolo “Si Gira” ed infine nel 1925, riveduto e corretto appare con un nuovo titolo: “I quaderni di Serafino Gubbio operatore”.

Il nucleo centrale del romanzo e delle riflessioni del protagonista poggia proprio sul contrasto vita/macchina che determina l’alienazione dell’uomo che, impoverito di vita e di creatività, diventa servitore di macchinari.

In un’atmosfera piena di speranze per la modernità, Pirandello teme la distruzione della terra devastata dalla follia dell’uomo/macchina e ancor di più, pensa che proprio quest’esito distruttivo possa essere l’unica via rigeneratrice per l’uomo: “mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accelera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follia, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto”.

Il romanzo dà la netta sensazione di una crisi interiore; Serafino descrive il conflitto causatogli dall’accettare il ruolo di un automa che deve solamente girare la manovella della cinepresa: “L’anima a me non mi serve. Mi serve la mano; cioè serve alla macchinetta”.

Con ironia Pirandello sottolinea la progressiva spersonalizzazione di Serafino Gubbio così come il suo assoggettamento alla macchina, cioè alla cinepresa. E con umorismo amaro osserva: " Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol dire mica dire operare. Io non opero nulla". Altri tracciano sul tappeto o sulla piattaforma i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena, egli non fa altro che prestare i suoi occhi alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere. Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l’azione da svolgere, dicendo approssimativamente il numero di metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori: attenti, si gira! E Serafino si mette a girare la manovella, semplice esecutore di ordini che altri hanno dato. Al termine, deve solo indicare quanti metri di pellicola sono stati impiegati. Per fare questo, non occorre aver un’anima o una mente; la qualità principale che gli si richiede come operatore è di arrivare ad essere un serio professionista in grado di rimanere impassibile davanti alla vita che lo circonda, come un ingranaggio meccanico, la cui perfezione, in quanto tale, consiste nel raggiungere un totale stato d’impassibilità.

La totale identificazione con la macchina emerge dalle parole di Serafino che afferma "assumo subito, con essa in mano, la mia maschera di impassibilità. Anzi ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta, e me la porto in mano".

Serafino Gubbio scompone la propria figura umana in pezzi confusi e sovrapposti a quelli della macchinetta, arrivando ad affermare che lui non ha più un’anima, perché non gli serve per girare una manovella. Come Serafino è ridotto a "una mano che gira una manovella" così anche la massa anonima e senza volto, è divenuta serva delle macchine.

Gubbio subisce dunque un dramma che non ha soluzione, intrappolato com’è fra due modi di vita: quello sentimentale e quello meccanico.


L’IMPOSSIBILITÀ DI SOTTRARSI ALLA MACCHINA

Nel romanzo Serafino incontra in un ospizio di mendicità un vecchio violinista, che è proprio simbolo della sorte miserabile a cui il continuo progresso condanna l’umanità.  Malgrado i suoi tentativi di sottrarsi alla tirannia delle macchine, il violinista, ridotto alla povertà dalla sua passione per il violino, viene ripetutamente costretto ad accettare umili lavori, come quello di alimentare con forme di piombo le macchine da stampa monotype, in modo da poter riscattare il suo prezioso strumento dal banco dei pegni. La tragedia esplode quando una compagnia cinematografica assume il vagabondo per accompagnare una pianola con il suo violino: la richiesta di asservire il suo talento artistico al ritmo automatico di una macchina lo fa infuriare a tal punto da causargli un accesso di ira cieca che gli procura due settimane di prigione. Rilasciato il vagabondo smette di suonare il suo violino.

Di questo rapporto alienante, uomo-macchina, diventa immagine metaforica la cinepresa. Attraverso di essa Serafino ha l’importante compito di filmare la vanità della vita, la quale assomiglia sempre più ad un film in cui ciascuno interpreta un ruolo sciocco ed insignificante. La cinepresa isola gli attori dalla vita concreta, dal rapporto vivo con il pubblico.

La macchina, con gli enormi guadagni che produce, può compensarli molto meglio di qualsiasi altro impresario o direttore proprietario di compagnia drammatica. Si sentono come. In esilio. In esilio non soltanto dal palcoscenico, ma anche da se stessi, perché la loro azione, l’azione viva, là, sulla tela dei cinematografi, non c’è più: c’è la loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in un’espressione, che guizza e scompare.

Tutti i personaggi perciò avvertono confusamente un senso di vuoto, che il loro corpo è quasi sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua voce, del rumore che esso produce muovendosi, per diventare solamente un’immagine muta, che tremola per un momento sullo schermo e scompare in silenzio, d’un tratto, come un’ombra inconsistente, gioco d’illusione su uno squallido pezzo di tela.


IL SIGNIFICATO DEI “QUADERNI” NELL’OPERA DI PIRANDELLO

Il valore metaforico della macchina da cinepresa emerge in tutta la sua profondità se collegata alla concezione pirandelliana della vita. La realtà tutta è vita, perpetuo movimento vitale, flusso continuo, Ciò che esce fuori da questo flusso perde forma, si irrigidisce, comincia a morire. Così avviene per l’identità dell’uomo. La cinepresa, che fissa le azioni in una forma, diviene metafora della tendenza dell’uomo a fissarsi in una realtà che egli stesso si dà.

Il flusso continuo della vita, costretto a stare in forme fisse e determinate, non può fermarsi in nessuna di esse, ma deve passare di forma in forma ed incessantemente, urtandovi contro, rompere e dissolvere schemi e forme.

Anche gli altri, con cui viviamo in società, vedendoci ciascuno secondo la propria prospettiva particolare, c’impongono determinate forme. Noi crediamo di essere uno per noi stessi e per gli altri, mentre siamo tanti individui diversi, a seconda della visione di chi ci guarda.

Ciascuna di queste forme è una visione fittizia, una maschera che noi stessi c’imponiamo e che c’impone il contesto sociale. La presa di coscienza di questa inconsistenza dell’io suscita nei personaggi pirandelliani smarrimento e dolore. La realtà non è più una totalità organica ma si spezza in molti frammenti che non hanno un senso complessivo.

Di questa assenza di significato è indice allusivo il nome del protagonista: Serafino. Di lui non abbiamo connotati fisici, né conosciamo retroterra affettivi, la sua personalità emerge furtivamente L’unica chiave che ci permette di penetrare l’astrattezza del personaggio risiede in quel suo strano nome, Serafino[2].


LA MODERNITÀ DELL’UMORISMO

Se in passato l’interiorità era il centro del reale, sede dell’esperienza originaria dell’Essere, ora questo centro scompare, il soggetto da entità assoluta diviene nessuno. L’umorismo diviene quindi l’arte moderna per eccellenza perché riflette la coscienza di un mondo non più ordinato ma frantumato, in cui non vi sono più prospettive privilegiate e punti di riferimento fissi, ma solo ambiguità e contraddizioni laceranti.

È un’arte critica, che abbatte luoghi comuni e abitudini di pensiero e costringe a vedere la realtà da prospettive diverse, strane, capaci di far saltare i sistemi delle certezze.

È il continuo contrasto fra l’illusione di perfezione e una volontà che si diverte a far vedere, l’altra faccia degli uomini e delle cose deformandole in una smorfia. Il contrasto fra l’ideale e il reale, fra l’illusione e la vita, fra la maschera e il volto non è più ancorato a nessuna certezza, ma dà luogo al sentimento dello scacco e dell’impotenza, alimenta una sensazione di casualità, imprevedibilità, relatività delle vicende umane.

Se la realtà è in perpetuo divenire, essa non si può fissare in schemi e moduli d’ordine totalizzanti, non esiste una prospettiva privilegiata da cui osservare il reale: al contrario, le prospettive possibili sono infinite e tutte equivalenti.

Ognuno ha la sua verità, che nasce dal suo modo soggettivo di vedere le cose. Ne deriva una desolata incomunicabilità fra gli uomini: essi non possono intendersi perché ognuno fa riferimento alla propria realtà ed è imprigionato nella propria solitudine.

Un progressivo mutismo avvolge Serafino, escluso dal mondo, disprezzato dai suoi colleghi di lavoro che lo ritengono un “ladro d’anime”. Il mutismo di Serafino appare come l’ultima difesa che la sua mente pone per difendersi dal mondo circostante; un mondo che lo vuole trasformato in un automa senza sentimenti e sprovvisto di un io. Serafino cerca in ogni modo di arrivare ad una perfezione di ripresa paragonabile a quella di un automa. Strumento per arrivare a tale perfezione, tra i tanti, è il mutismo, attraverso il quale l’operatore stacca i contatti con gli uomini per rinchiudersi dentro se stesso.


LA PERFEZIONE E LA DISTRUZIONE DELL’UOMO

La vendetta compiuta da Serafino sul suo ruolo di automa, portandolo all’estremo, si ritorce, però, contro di lui: lo choc, provocatogli dall’ultima scena del film in cui Nuti prima assassina con un colpo di fucile la Nestoroff e poi si lascia sbranare dalla tigre, lo rende muto per sempre. Per comunicare con gli uomini non gli resta che “una penna e un pezzo di carta”. L’afasia così raggiunta è, tuttavia, anche la sua perfezione “come operatore”: il suo tanto vantato “silenzio di cosa”, che lo assimila alla macchina fino alla contaminazione fisica con questa, è pervenuto al suo punto culminante.

Questa parabola è stata anticipata all’inizio del romanzo dall’incontro con l’uomo del violino, ridotto anch’egli al mutismo e senza nome, il violinista. Ma tale “professionale impassibilità”, tale afasia, già dalle prime pagine del romanzo è qualcosa da scontare e di cui vendicarsi: “soddisfo, scrivendo, ad un bisogno di sfogo, prepotente”. La scrittura diviene strumento conoscitivo, di analisi, di oggettività: “studio la gente nelle sue più ordinate occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia - la certezza che capiscano ciò che fanno”.

Il processo di disgregazione a cui l’umorismo di Pirandello ha sottoposto tutti i miti, che i suoi contemporanei si sono creati, arriva all’impossibilità di pronunciare qualsiasi giudizio sulla vita e sulle umane azioni.


LONTANO DALLA REALTÀ

Si ha quindi la scomparsa dell’autore come portatore di valori e certezze. Egli guarda da lontano lo scorrere della vita altrui, così da coglierne l’inconsistenza, l’assurdità, la mancanza totale di senso.

In questa lontananza dalla realtà si vede la condizione di Pirandello come intellettuale, che rifiuta il ruolo politico attivo e nel suo pessimismo radicale si riserva solo un ruolo contemplativo, di lucida critica del reale. Ma tale analisi non approda ad una visione totalizzante della realtà. È la vita stessa che appare come banalità o angoscia o non senso. Questa assenza di significato appare evidente anche nella dissoluzione della struttura narrativa. La scelta formale di Pirandello è usata come mezzo per attuare una critica alla società borghese, con le sue ideologie e istituzioni, attraverso il suo contribuire attivamente alla crisi della narrativa in funzione di una critica più complessa dei valori.

La diffidenza nei confronti della realtà industriale e della macchina, che soffoca la realtà e la vita degli uomini è presente anche in altri scritti.

Nel romanzo “Il fu Mattia Pascal”, (1904) il protagonista si chiede perché gli uomini…si affannino a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l’uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il progresso non ha nulla a che fare con la felicità?…”. “La scienza ha l’illusione di render più facile e più comoda l’esistenza…con tutte le sue macchine così difficili e complicate… E qual peggior servizio a chi sia condannato ad una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica”.

Nei pensieri di Tommasino, protagonista della Nella novella “Canta l’epistola”, è l’aereo il simbolo delle vane ambizioni di una civiltà tecnologica sempre più disumanizzata. “... Che grida dì vittoria perché l’uomo...s’è messo a volare, a far l’uccellino (...) Pensare adesso al goffo apparecchio rombante e allo sgomento dell’ansia, all’angoscia mortale dell’uomo che vuol fare l’uccellino! (...) là un motore strepitoso e puzzolente, e la morte davanti. Il motore si guasta; il motore s’arresta; addio uccellino!”. Queste stesse riflessioni sono presenti anche in Vitangelo Moscarda, il protagonista di “Uno, nessuno e centomila” che (nel X capitolo del Libro Secondo del romanzo, intitolato “L’uccellino”.) appunto contrappone l’uccellino vero “che vola davvero” al “goffo apparecchio rombante” dalle “ali finte” e del “volo meccanico”, che vola in un mondo “dove tutto è finto e meccanico, riduzione e costruzione: un altro mondo nel mondo d’artificio, di stortura, d’adattamento, di finzione, di vanità; mondo che ha senso e ha valore soltanto per l’uomo che ne è l’artefice.

 

[1] Carrà: La carrozzella

[2] Certo non casuale in un autore come Pirandello, convinto che il nome fosse il primo biglietto da visita da affidare al personaggio. La natura del nome e del cognome dell’interprete principale del romanzo è stato oggetto di diverse interpretazioni. Una di queste rimanda a San Francesco, descritto nel paradiso dantesco “serafico in ardore”. Un’ulteriore interpretazione si deve ad Umberto Artioli il quale notò che “Dottor Seraphicus” era appellativo attribuito a San Bonaventura, autore di un trattato di mistica dal titolo “Itinerarium mentis in Deum”. Il nome del protagonista, dunque, sembra riferirsi allusivamente ad un analogo itinerario interiore, un itinerario, tuttavia, che non va “in Deum”, ma procede verso il nulla, non arriva a nessuna soluzione rigenerativa. In questo percorso l’io si frantuma, si annulla in una serie di frammenti incoerenti.


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Ultimo aggiornamento: 07-02-2011.